Come comunicare con i propri bambini? Diamo per scontato che capiscano il nostro linguaggio, ma è così? E noi comprendiamo il loro?
Per riflettere insieme ai genitori, Informazione Psicologia ha proposto un ciclo di incontri sul tema.
Vediamo, quindi, quali sono i principali aspetti da considerare.
La prima riflessione da fare è che, fin dall’inizio, una comunicazione è un passaggio di informazioni ma soprattutto di affetti.
Il primo strumento a disposizione di un bambino è il pianto: attraverso il pianto il neonato comunica bisogni e disagi e la risposta che riceve dà il via alla relazione.
Quando il bambino inizia a parlare lo scambio comunicativo diventa più ricco, ma bisogna tener conto delle fisiologiche fasi evolutive. Brevemente, ricordiamo che dai 9 ai 12 mesi il linguaggio è di tipo concreto, legato cioè al contesto e al bisogno del momento; verso i 24 mesi il linguaggio del bambino diventa simbolico, cioè è in grado di fare “come se”; dai 2 ai 7 anni il suo linguaggio è prevalentemente egocentrico, questo perché il bambino percepisce il mondo unicamente dal suo punto di vista e questo gli impedisce di comprendere, ad esempio, l’intenzione del genitore: se sgridato, la sua reazione è “Mamma è cattiva!”. Dai 7 agli 11 anni lo stile diventa meno egocentrico e si caratterizza inizialmente per quelli errori tipici noti come “errori intelligenti”, come ad esempio “voglio bevere”: si chiama linguaggio iper-regolare.
E, rispetto a ciò, non lasciamo indietro i papà! Specialmente nei primi momenti di vita del neonato, la madre è di solito più coinvolta, anche perché la gravidanza ed il parto l’hanno già messa in relazione col piccolo. Tuttavia, mamma è papà hanno ruoli complementari ed entrambi indispensabili, sia per il bambino, sia per un reciproco supporto.
Un altro aspetto fondamentale quando parliamo ai nostri bambini, è la comunicazione non verbale: a volte trascuriamo il fatto che, oltre a ciò che diciamo a parole, comunichiamo con lo sguardo, con il tono della voce, con l’espressione del volto, con la posizione del corpo. Ciò è universalmente vero, cosa di cui certamente ciascuno di noi ha avuto esperienza, e lo è anche e soprattutto con i piccoli. Di solito gli indizi del corpo sono “in linea” con quello che diciamo, talvolta però capita che la nostra comunicazione non verbale “non si adatta”, cioè è incongrua, al contenuto di ciò che stiamo dicendo. Il linguaggio non verbale è meno soggetto al nostro controllo volontario, pertanto, anche quando non abbiamo intenzione di mostrare il nostro stato d’animo, il non verbale può tradirci…
Ciò è particolarmente significativo quando abbiamo a che fare con le emozioni negative. Molto spesso, noi grandi siamo spaventati dalle emozioni negative, così evitiamo di esprimerle esplicitamente. È invece molto importante riconoscere ed accogliere le proprie emozioni, anche quelle negative ed imparare a dar loro il giusto nome. Si può dire, ad esempio, al proprio figlio: “La mamma è arrabbiata…” oppure “Papà è triste…”, “Capita anche a te di essere dispiaciuto?”.
Poterlo dire, non solo non è spaventoso come noi potremmo credere, ma ci mette anche al riparo da un messaggio pericolosamente incongruo, basato cioè sul comunicare verbalmente un concetto, che contemporaneamente viene negato dal comportamento del nostro corpo. Se la mamma è triste, non ha senso che neghi con le parole il suo stato interiore, se il linguaggio del corpo e del volto comunicano altro. Questa incongruenza può infatti confondere il bambino e, se permane nel tempo come linea comunicativa principale, potrà causare disturbi nella relazione con il piccolo.
Inoltre, quando dobbiamo comunicare un’emozione negativa, l’importante è contestualizzarla e non generalizzarla: “Mamma è arrabbiata adesso perché…”, “Mamma è un po’ triste perché…, ma tu non devi preoccuparti”.
Altrettanto fondamentale è non confondere l’azione del momento che ha suscitato l’emozione negativa con un tratto stabile ed irreversibilie, e cioè: “Mamma è arrabbiata perché ti sei comportato male” e non “Mamma è arrabbiata perché sei cattivo!”.
Questo tipo di contestualizzazione è molto significativa anche in ambito scolastico: “Non hai svolto bene il compito”, piuttosto che “Non sei capace”.
Tutte queste considerazioni metteranno al riparo i bambini ed i grandi da spiacevoli e silenziose incomprensioni e, dicendo ai piccoli – pur nella forma più adeguata al loro linguaggio – la verità, miglioreremo il rapporto di fiducia con loro!
Dott.ssa Nicoletta Maggitti, Dott.ssa Sara Reginella e Dott.ssa Nicoletta Suppa